Padre Arvedo Godina, missionario in Mali, in una sua lettera recente affronta varie tematiche, dal suo impegno con i catechisti a quello di cappellano della prigione, toccando temi attuali come l’islamizzazione del Paese e la lenta progressione del Covid-19

Il 23 maggio scorso, i nostri amici musulmani hanno festeggiato la fine del mese di “Ramadan”. Per loro è “la piccola festa”. Dappertutto frotte di bambini, di ragazzi e ragazze, con i vestiti nuovi, i sandali colorati in plastica, se possibile un paio di occhiali da sole in plastica colorata, tutti contenti e gioiosi come da noi a Natale, anche se pochi hanno avuto il coraggio o la possibilità di fare un mese di digiuno.

Ogni giorno il termometro sale a 42 o 43 gradi. Come si fa a passare tutta una giornata senza toccare una goccia d’acqua? Qualcuno e soprattutto qualche brava donna riesce a praticare il digiuno completo come la religione lo domanda.

Con il mio confratello ruandese Emmanuel Rukundo, sono stato invitato da un amico veterinario. La mamma è profondamente cristiana e per la festa aveva un bel vestito con l’immagine della Vergine Maria. Suo marito era musulmano. I figli sono tutti musulmani. Ma qualcuno si è sposato con una cristiana. Chiedo i loro nomi. Mi rispondono: “Enrico, Abdul, Fatima, Teresa, (sposata con un mussulmano)”. Tutti insieme per la festa, tutti contenti che un vecchio padre missionario sia andato a mangiare da loro.

In queste occasioni mi ricordo lo sfogo che il mio primo vescovo maliano, Monsignor Luc Sangaré ha fatto quando hanno inaugurato la grande Moschea di Bamako senza invitarlo. Moschea costruita con i petrodollari del Golfo. Eravamo alla fine del mese di luglio 1979. Mi diceva: “Questi arabi del Golfo che danno soldi per costruire moschee e islamizzare il nostro paese stanno distruggendo tutti i valori della nostra cultura: la fraternità, la tolleranza, l’ospitalità!” Ma da noi la gente continua a vivere questi valori ancestrali.

Ho passato la giornata con loro, un po’ come Gesù a Cana, (però senza cambiare l’acqua in vino!), senza fare discorsi, in un clima di amicizia, rispondendo semplicemente ai ragazzi musulmani che guardavano la mia croce al collo: “è questo Gesù?” “Sì, guarda bene come è morto in croce”!

L’islamizzazione del paese conquista terreno a gran passi. Nel 1988 c’erano duecento moschee a Bamako, la capitale del Mali. Ora se ne contano più di 1.000. Tra i nostri cristiani rari sono i benefattori che aiutano a costruire una chiesetta.

È con tanta gioia che leggo che in Italia state uscendo dal tunnel del Coronavirus. È  arrivato anche da noi in Mali. Finora abbiamo avuto circa 2mila casi e un centinaio di morti.

Speriamo che il virus scompaia prima della prossima stagione delle piogge. Ma quello che non scomparirà presto è la povertà che questo virus provoca.

Un giovane mi diceva: “Io  lavoro come fabbro soprattutto per costruire la casa in Mali per quelli che hanno trovato lavoro in Europa. È da tre mesi che non ho lavoro. Non abbiamo più niente. I miei genitori sono anziani. Ho moglie e tre bambini. Cosa possiamo fare?”

Ogni giorno, posso dire a ogni ora della giornata, ci sono dei poveri che vengono a cercare un aiuto. Cacciati dal loro villaggio dalla siccità, dai debiti, dalla fame, vengono verso la città, come unica speranza. I più giovani, i più volenterosi, non sempre i più poveri, tentano l’attraversata del deserto e del Mediterraneo. È una marea che niente potrà fermare. Ci sono troppe ingiustizie, troppa disparità, troppa miseria, e ora anche la guerra, per trattenere tutti questi giovani che non desiderano che una sola cosa: costruirsi con dignità la propria vita.

Tanti ammalati vengono a bussare alla porta della nostra missione. Più che il Covid-19 è la malaria che uccide, e poi le malattie intestinali e le polmoniti. E poi, ogni sei ore, in Mali, c’è une donna che muore durante o a causa del parto.

Finora il virus sembra non essere entrato nella prigione di Bamako. Il Governo ha preso delle misure sagge per sfoltire la prigione. Più di 600 prigionieri sono stati liberati solo a Bamako. Ma rimangono purtroppo ancora 1.900 prigionieri in una prigione costruita all’epoca coloniale per un massimo di 700 persone.

Sono sempre meravigliato della libertà che mi danno di entrare, uscire, visitare tutti i prigionieri di cella in cella senza nessuna restrizione. Anche con i famosi jihadisti cerco di instaurare un clima di amicizia e di dialogo. Ma per parlare con loro bisognerebbe conoscere il fulbé, il songhaï, il taamashèk. E allora una stretta di mano, un incoraggiamento, un aiuto  soprattutto nel momento della malattia e… il contatto è stabilito.

Un giovane che ha passato tre anni in prigione a Bamako e poi liberato, mi ha telefonato varie volte dal Niger dicendomi: “Padre, devi venire a trovarci. La mia vecchia mamma vuole conoscerti e ringraziarti”. È commovente. Ma non è possibile.

Tanti prigionieri ammalati poveri hanno bisogno del nostro aiuto.  Facciamo quel che possiamo ma alle volte mi si stringe il cuore davanti a tanta povertà e a tanta miseria.

Gli allievi-catechisti del centro sono tutti tornati a casa. C’erano tredici famiglie complete con una trentina di bambini, e qualche celibe. Avevo domandato il loro parere. Tutti mi avevano messo per iscritto il loro desiderio: “Vogliamo rimanere con te, qui a Ntonimba, fino alla fine di questa epidemia.”

Ma il nostro Vescovo ha avuto un po’ paura. E ha preferito che tutti tornassero a casa.

Così ho un po’ più di tempo per fare i lavori di catechesi che le comunità cristiane mi domandano. Abbiamo finito una nuova traduzione dei quattro Vangeli e degli Atti degli Apostoli. Con i nostri tre catechisti permanenti stiamo lavorando a pubblicare i volumi delle celebrazioni della Parola dell’Anno prossimo, anno B, in bambara, la lingua locale.

In questo modo il tempo vola.