«Le nostre missioni sono state attaccate e saccheggiate. Due confratelli sono stati sequestrati, e dopo pochi giorni liberati. Di un altro che si trovava in un villaggio non abbiamo notizie». Le testimonianze drammatiche dal nord dell’Etiopia sconvolto da un conflitto sanguinoso e devastante. E l’appello agli amici dei Padri Bianchi: «Abbiamo bisogno del vostro aiuto per ricostruire e aiutare la popolazione»
La guerra che da novembre sconvolge la regione settentrionale dell’Etiopia, e di cui si parla nell’ultimo numero della rivista Africa, ha investito anche i Padri Bianchi. Missioni assaltate, saccheggi, la minaccia delle armi: un incubo. A quattro mesi dallo scoppio delle ostilità fra i soldati tigrini “ribelli” del Fronte di liberazione del popolo del Tigray (Tplf) e l’esercito nazionale, la zona resta inaccessibile. I collegamenti telefonici e internet sono interrotti. Le comunicazioni e gli spostamenti, blindati. Le notizie filtrano col contagocce, ma quello che emerge fa capire la brutalità di un conflitto che i nostri grandi media continuano a ignorare. «Al momento non conosciamo il bilancio delle vittime, probabilmente migliaia di morti», dice Bonaventure Bwanakweri, Padre Bianco rwandese, responsabile del gruppo di confratelli in Etiopia. Quando iniziarono i combattimenti, lui era nella missione di Kombolcha, nella regione Amhara, lontano dal fronte caldo. Ma è riuscito a mettersi in contatto con la comunità di Adigrat, dove si trovano adesso sette missionari (di altrettante nazionalità, nello stile dei Padri Bianchi), cinque seminaristi e due suore fuggite dalla loro piccola missione di Dawhan, vicino al confine eritreo, finita nel bel mezzo delle battaglie. «Alla missione di Adigrat hanno vissuto momenti di autentico terrore – riferisce padre Bonaventure –. Dei soldati, probabilmente eritrei infiltrati nel conflitto, hanno assaltato la comunità e il centro giovanile costruito con tanti sacrifici dai Padri Bianchi. Armi in pugno, hanno devastato gli edifici e rubato macchine e computer. Quel che è peggio, hanno sequestrato due confratelli: li hanno tenuti per alcuni giorni come ostaggi sotto la minaccia dei fucili prima di rilasciarli. Un vero shock. Ora il nostro pensiero va a un altro confratello, Eddie Nhahinda, che si trovava in un remoto villaggio quando la guerra è scoppiata: ne abbiamo perso le tracce, siamo preoccupati, preghiamo per la sua vita».
Anche alla missione di Wukro, dove al momento dell’inizio delle violenze vivevano due preti diocesani, i soldati hanno fatto irruzione e saccheggiato i beni dei Padri Bianchi, come del resto è avvenuto in gran parte delle abitazioni e degli uffici del Tigray. «Non ci aspettavamo tanta violenza – ammette padre Bwanakweri –. Certo la tensione tra governo centrale di Addis Abeba e autorità tigrine era cresciuta negli ultimi mesi, con il governo che accusava di insubordinazione i leader del Tigray. Minacce e provocazioni reciproche erano numerose. Confidavamo però che la diplomazia prevalesse». Invece, la notte fra il 3 il 4 novembre il primo ministro (e Nobel per la Pace) Abiy Ahmed ha ordinato la campagna militare contro «i ribelli tigrini». «Violenza chiama violenza e la situazione è ben presto sfuggita di mano», commenta con amarezza una fonte missionaria nel Tigray. «Ovunque volgi lo sguardo vedi la disperazione della gente e la devastazione del territorio. Edifici sventrati e razziati, strade e ponti danneggiati».
Ci vorranno anni per rimarginare le ferite. «Noi missionari resteremo accanto alla popolazione, come è sempre accaduto nei momenti più delicati e difficili della storia», assicura padre Gaetano Cazzola, superiore dei Padri Bianchi italiani, che è vissuto sette anni in Tigray, dove insegnava al seminario di Adigrat (dal 1967 i Padri Bianchi assicurano la formazione del clero locale) e occupandosi di svariate attività di promozione sociale. «Nella regione la nostra congregazione ha avviato una parrocchia e una scuola superiore, che ultimamente sono state date in gestione ai preti diocesani. Tuttora ci dedichiamo ad aiutare i più bisognosi, specie gli orfani vittime della guerra con l’Eritrea, e centinaia di giovani per i quali abbiamo costruito un oratorio con campi sportivi, spazi di aggregazione, aule di informatica e di musica. Inoltre abbiamo avviato un grande orto e un allevamento di mucche, pecore, conigli. Le notizie che ora vengono da quella regione a cui sono legato mi fanno male al cuore. I danni materiali sono ingenti, quelli spirituali lo sono ancor di più. Ci vorrà del tempo. Ma non ci faremo scoraggiare. Resteremo nel Tigray per aiutare la gente. E siamo certi di poter contare sull’aiuto dei nostri amici benefattori».
Chiunque voglia rispondere a questo appello di aiuto urgente può utilizzare i conti correnti segnalati nell’ultima pagina di questo notiziario o il bollettino postale allegato precisando nella causale: “Aiuto per le missioni nel Tigray”. (M.T.)