Il Sudafrica è il Paese africano più colpito dalla pandemia: da solo conta oltre la metà dei casi di contagio e delle vittime dell’intero continente. Un Padre Bianco italiano che ha vissuto l’emergenza sanitaria nella Nazione Arcobaleno ci offre una testimonianza su come il coronavirus ha stravolto le attività anche di una comunità di formazione

Il covid è giunto in Sudafrica all’inizio del 2020. I primi casi si sono registrati a Hilton, cittadina a qualche chilometro da Merrivale, dove si trova l’Istituto teologico di cui siamo parte. Si trattava di una coppia di rientro da un viaggio in Italia e del medico cui si era rivolta accusando febbre e malessere. Le autorità annunciarono che i contagiati erano stati messi in quarantena: dopo un paio di settimane tornarono alle loro attività abituali. Pensavamo fosse un evento isolato. Era solo l’inizio della crisi. La paura s’insinuò nella popolazione: notai subito una diminuzione di fedeli alla messa domenicale.

Verso la fine di marzo, il presidente Cyril Ramaphosa proclamò il blocco di tutte le attività e dei movimenti non essenziali, così da permettere ai servizi sanitari di prepararsi a fronteggiare l’epidemia. Il presidente raccomandò comportamenti responsabili: evitare assembramenti, eventi pubblici, spostamenti, viaggi. Un lockdown rigido di tre settimane. All’Istituto teologico avevamo già deciso di interrompere le lezioni in classe, chiedendo agli studenti di continuare a studiare nelle loro comunità o famiglie. I vescovi cattolici e anglicani, e i leader delle altre Chiese, sospesero tutte le attività religiose.

Nella nostra comunità di Merrivale decidemmo di proteggere la salute del personale permettendo alle dipendenti di restare a casa, assicurando al contempo il salario necessario per mantenere le loro famiglie. Ci organizzammo per cucinare, fare la spesa e le pulizie. In quel primo periodo di lockdown mi limitai a mandare email alle mie classi suggerendo i testi da leggere e correggendo gli elaborati che gli studenti mi inviavano. La Pasqua 2020 la vivemmo blindati, in una situazione irreale.

Johannesburg. Durante un pattugliamento nelle strade di Hillbrow un poliziotto della difesa nazionale (SANDF) controlla un senzatetto stremato da una overdose
Johannesburg. Durante un pattugliamento nelle strade di Hillbrow un poliziotto della difesa nazionale (SANDF) controlla un senzatetto stremato da una overdose (Photo by MARCO LONGARI / AFP)

Allo scadere delle tre settimane, il presidente comunicò la necessità di estendere il lockdown. I focolai erano ormai ovunque. A fine maggio, la situazione cominciò a migliorare. Organizzammo gli esami del primo semestre evitando gli assembramenti: i professori passavano per le residenze degli studenti per distribuire – e poi raccogliere – le prove d’esame e gli elaborati. A livello nazionale, a luglio riaprirono diverse istituzioni accademiche, dato che le misure prese avevano contribuito ad abbassare sensibilmente la curva delle infezioni. Anche noi preparammo un programma per il rientro scaglionato, ma, con l’accertamento di casi positivi di covid tra gli studenti, risolvemmo di riprendere il semestre con la didattica a distanza. Non è stato facile, siamo però riusciti a portare a termine l’anno di studi.

La posizione della nostra casa – in zona rurale, con un ampio terreno e con acqua, luce, internet e cibo assicurati – ha permesso una vita tranquilla e ci ha aiutato a superare la pandemia senza vittime. Non c’è dubbio, però, che la mancanza di contatti e la costrizione a non uscire sono stati fattori di tensione e fatica psicologica. Poco prima di Natale l’andamento dei contagi ha imposto un nuovo lockdown, sebbene meno severo del primo. È allora che il coronavirus – fattosi più aggressivo con la nuova variante sudafricana – ha falcidiato una congregazione missionaria (due seminaristi morti nel giro di una settimana) e una congregazione femminile (dieci suore decedute in pochi giorni). Oggi pare che la pandemia stia attenuandosi. La campagna di vaccinazione è timidamente partita, ma serviranno ancora molti mesi prima di uscire dall’incubo.

padre Luigi Morell