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Padre Giovanni Marchetti, 58 anni, ha trascorso più di metà della sua vita nel cuore (pulsante e tormentato) dell’Africa. Prima come missionario tra le comunità più sperdute delle foreste del Maniema, poi come parroco in un quartiere popolare di Lubumbashi. «Nella Repubblica Democratica del Congo ho visto cose terrificanti, ma anche straordinarie testimonianze di fede»

«Una volta che entri nell’orbita di questo Paese finisci per sempre intrappolato in un’invisibile ragnatela da cui è impossibile staccarsi», mi disse anni fa un giovane missionario a Kinshasa. Sarà per via dei suoi abitanti, generosi ed esuberanti; sarà per l’energia sprigionata dalla sua aria equatoriale, satura di umidità, calda e tempestosa. Fatto sta che la Repubblica Democratica del Congo sembra un enorme magnete, la cui forza d’attrazione è impossibile da contrastare. C’è qualcosa di seducente e fatale in questo territorio, vasto quasi otto volte l’Italia, attraversato da un fiume impetuoso che irrora una foresta colossale, ultimo polmone verde d’Africa.
Anche padre Giovanni Marchetti, 58 anni, è rimasto conquistato dal Congo. «La prima volta che ci misi piede era il 1991», racconta. «All’epoca si chiamava Zaire ed era governato con pugno di ferro dal dittatore Mobutu Sese Seko». Originario di un paese della Bassa Padana, Montodine, ordinato sacerdote diocesano nel 1987, entrato nella famiglia dei Padri Bianchi quattro anni dopo, Padre Giovanni fu inviato in piena foresta nella sperduta provincia del Maniema.

P. Marchetti durante il giuramento nella famiglia dei Padri Bianchi

«La città più vicina, Bukavu, si trovava a cinquecento chilometri di distanza… Cinque giorni di viaggio in moto. Non c’erano mezzi né strade di collegamento, solo piste di fango e terra rossa per piccoli aerei che durante la stagione delle piogge diventavano impraticabili».
Di quegli anni Giovanni ricorda i viaggi avventurosi per visitare le comunità più isolate. «Non erano abituati a vedere i bianchi. Alla mia vista i bambini urlavano tra l’entusiasmo e il terrore. L’accoglienza nei poveri villaggi di capanne era sempre calorosa». Il clima cambiò drasticamente con il genocidio del Rwanda (1994) e la successiva implosione del regime di Mobutu (1997). Il territorio divenne un campo di battaglia, in cui divampavano le violenze di soldati allo sbando, miliziani, banditi, gruppi paramilitari al soldo di Paesi stranieri, signori della guerra, organizzazioni criminali. A farne le spese, la popolazione civile. L’instabilità e l’insicurezza dilagarono. Dalla foresta giungevano notizie di agguati, razzie, massacri. Padre Giovanni fu vittima di un sequestro. «Un commando di ribelli Mayi-Mayi attaccò il villaggio in cui mi ero recato per far visita ai fedeli», racconta. «Si accanirono sulla gente con ferocia inaudita. Uccisero e decapitarono due poveri ragazzi e conficcarono le loro teste su due lance, brandendole per terrorizzare la popolazione. Mi minacciarono con il fucile accusandomi di essere un mercenario. Venni rapito e portato con la forza in una base ribelle. Marciammo per una settimana nella foresta, finché giungemmo sfiniti nell’accampamento. Riuscii a scappare approfittando della confusione durante uno scontro a fuoco con un altro gruppo armato. Assieme ad alcuni cristiani del posto, rimasi nascosto nella boscaglia, dove ci costruimmo un riparo di fortuna».
Momenti terribili, che tuttavia non hanno intaccato il suo amore per il Congo. «Non ho mai pensato di lasciare il Paese, nemmeno dopo quell’esperienza così forte», dice convinto. Richiamato a Treviglio per una breve parentesi in veste di Provinciale dei Padri Bianchi italiani, padre Giovanni è rientrato nel cuore dell’Africa appena ha potuto. Oggi è responsabile di una parrocchia alla periferia di Lubumbashi, terza città del Paese, capitale della provincia sud-orientale dell’Alto Katanga. Vive in una zona mineraria, ricca di rame e di cobalto, da sempre al centro degli enormi appetiti di potenze straniere e multinazionali. «La gran parte delle miniere è controllata dai cinesi. Ma oggi come ieri le enormi ricchezze celate nel sottosuolo vengono depredate e finiscono per arricchire i soliti noti: uomini d’affari, politici, esponenti dell’establishment. La grande maggioranza della gente continua a fare la fame. E in città la vita è ancora più dura. Non c’è la solidarietà della comunità rurale. Si è più soli e vulnerabili. Si lotta ogni giorno per sopravvivere. Gli uomini dello Stato, anziché soccorrere gli indigenti, si avventano sulle ricchezze per saccheggiarle. Poliziotti e militari estorcono denaro alla popolazione».
Uomini in divisa volteggiano come avvoltoi agli incroci, pronti a taglieggiare chiunque capiti tra le loro mani. Non hanno granché da arraffare. Il reddito annuo pro capite nella Rd Congo è di 120 dollari, e gran parte dei 92 milioni di abitanti vive sotto il livello di povertà.

I servizi di sanità sono lontani o non funzionano per nulla… Ia gente, soprattutto i poveri, soffrono nei loro tuguri senza cure…

Il Congo appare come un gigante dai piedi d’argilla, spossato e senza pace, con un apparato statale mastodontico e inefficiente, luogo-simbolo del disordine e dei conflitti che affliggono il continente.
«La gente sfiduciata dalla politica si aggrappa alla fede», racconta padre Giovanni. Migliaia di Chiese cristiane fioriscono ad ogni angolo. Le chiamano Églises du Réveil: Chiese del Risveglio». I cartelloni sulla strada reclamizzano l’Esercito della Divina Provvidenza, La Misericordia della Prosperità, Il Popolo Eletto del Tabernacolo, La Luce delle Meraviglie, La Promessa di Geremia… Un’accozzaglia di fantasiose allusioni bibliche. «Sembra un supermercato della fede, o, meglio, una fabbrica dei sogni», commenta padre Giovanni. «Ciascuna setta offre ai propri seguaci un impasto originale di precetti cristiani, credenze animiste e ataviche superstizioni». Lo storico primato della Chiesa cattolica è insidiato dai nuovi profeti della prosperità, che mischiano l’Antico Testamento con le superstizioni locali. «Nel nostro quartiere, abitato da circa cinquantamila persone, i cattolici battezzati sono appena tremila. Gli altri si affidano ai predicatori, autoproclamati profeti, che promettono la salvezza e il successo economico».

Si invocano i miracoli e nel frattempo la corruzione dilaga, gli ospedali pubblici cadono a pezzi, le scuole perdono per strada alunni e insegnanti. Ed è inutile lamentarsi, perché non c’è nessuno a cui chiedere conto del disastro. Gli uffici amministrativi sono scatoloni vuoti, desolanti monumenti all’inefficienza e alla burocrazia. I dipendenti statali si sentono legittimati a rubare. Nelle case la fornitura dell’elettricità e dell’acqua è continuamente interrotta. E il cibo è scarso. La gran parte della gente vive alla giornata; la mortalità è alta perché per beneficiare di cure mediche è necessario avere i mezzi finanziari che molti non hanno. Anche il covid, arrivato fin qui, ha spazzato via soprattutto gli anziani debilitati, nell’indifferenza generale.

P. Giovanni con alcuni parrocchiani… “Ogni giorno mi danno motivo per restare aggrappato a questa terra, bella e dannata”

«Dopo trent’anni di Congo a volte sento la fatica», ammette padre Giovanni. «Vedo le ingiustizie perpetuarsi ogni giorno, i più deboli e indifesi soccombere alla prepotenza e alla corruzione. È dura. A volte mi sento senza forze, senza energie. Viene voglia di arrendersi, di fronte agli enormi problemi che ho davanti agli occhi. Sembra che nulla cambi in meglio. Ma poi ritrovo ispirazione e nuove motivazioni nelle testimonianze preziose che ogni giorno mi trasmettono i miei parrocchiani. Gente umile, donne e uomini di grande dignità e valori profondi, che malgrado i soprusi e le violenze si danno da fare per aiutare il prossimo, senza chiedere nulla in cambio. Ogni giorno mi danno una lezione, un motivo per non mollare, per camminare assieme a loro, per restare aggrappato a questa terra, bella e dannata». Da cui padre Giovanni proprio non riesce a staccarsi.   

Marco Trovato