Continuiamo il racconto di una donna nigeriana, trafficata da Benin City e costretta a prostituirsi sulle strade del Nord Italia

DA MADRID A TORINO

“In Spagna non conoscevo ancora quella madame magnaccia che mi aveva comperato. Noi in macchina viaggiavamo solo di notte partendo alle due del mattino. Sbarcati in Spagna, essendo io piccola di taglia, mi hanno messo nel cofano e siamo partiti per Madrid. Da Madrid, di notte, mi hanno messo ancora nel cofano, abbiamo attraversato Francia (come e passando da dove non si sa) per giungere finalmente a Torino in Italia. In viaggio occorre che tu dica sempre sì a chi ti dà gli ordini e allora per te non succede niente e tu passi dappertutto con documenti falsi. Se sgarri e disubbidisci, allora sei picchiata fortemente ed anche violentata fino a quando tu ti pieghi alla volontà di chi ti sta portando alla meta di destinazione. Se tu non collabori ti picchiano: pugni, schiaffi, calci, manate violente sul corpo”.

“A Torino eravamo arrivati sempre di notte, verso le 2. Nella casa dove alloggiavo c’erano già altre ragazze. È successo in diverse tappe del viaggio di trovare altre ragazze che ci hanno preceduto e che sono in attesa di proseguire il loro viaggio. È risaputo che se le ragazze sono belle e formose, possono essere trattenute per soddisfare le voglie degli abitanti del posto. Addirittura nel Mali i magnaccia hanno organizzato dei bordelli con delle ragazze nigeriane per avere il consenso delle autorità che chiudevano gli occhi su loro passaggio in cambio di favori sessuali. In queste case di transito ci sono ragazze che possono restare due settimane, ma anche sei mesi o addirittura un anno”.

“A Torino, io avevo i piedi gonfi e feriti per quel lungo viaggio attraverso il bosco e il deserto, senza calzature adeguate e non potevo andare in giro in quel modo. Allora la madame mi ha lasciato una settimana in casa per riposare e curarmi dopodiché mi ha detto di andare al mercato con lei per fare la spesa. Mi ha comperato un paio di stivaletti con tacchi molto alti, alcune paia di calze e dei pantaloni. Però arrivate a casa, la madame ha cominciato a tagliare i pantaloni e a ridurli a pezzi succinti. Io le ho chiesto se dovessi indossare quegli stracci. Mi ha risposto di andare da un’altra ragazza che era nell’appartamento che mi avrebbe sistemato i capelli. Mi disse che alla sera sarei uscita per il lavoro. Sono uscita con quella ragazza che mi collocò in una stazione di servizio e aggiunse che avrei dovuto pagare 500mila lire al mese per affittare quel posto. Sono stata lì dal 1999 fino al 2000. Quella sera sono andata sulla strada ma non sapevo che fare. La mia amica di sventura mi diceva che dovevo sbrogliarmi, altrimenti avrei preso un ‘casino di botte’ al mio ritorno a casa. Ma io non vedevo proprio come fare per espormi a quella vita che mai avevo immaginato”.

“Ora mi ricordo chiaramente: sono partita alla fine di agosto del 1998 dalla Nigeria per arrivare in Italia in dicembre. Alla madame dovevo dare ogni settimana i soldi anche per mangiare e i soldi dell’affitto di un letto in quella camera. Sommando tutte quelle spese, arrivavo a pagare circa un milione di lire solo per saldare tutti i debiti che la madame mi imponeva. Senza dimenticare la luce e il riscaldamento. Io non avevo nessun soldo in quel momento ma dovevo comunque pagare! Non potevo parlare neppure con i miei figli e quando volevo telefonare, lei faceva il numero e mi passava il telefono restando ad ascoltare quanto dicevo. La prima volta ho sentito la mia mamma che mi ha chiesto come stavo. Le ho risposto che non stavo troppo bene, non ero in prigione ma mi sembrava di starci. Subito sono stata picchiata dalla madame. Allora ho cominciato a pagare e sono rimasta trenta mesi sulla strada per saldare il conto. Un mio zio in Nigeria aveva contribuito a diminuire il mio debito. Al mese potevo guadagnare anche 10 milioni di lire (circa 5 mila euro) ma lei regolarmente toglieva un gran parte di quel denaro per pagare il ‘posto ( the joint, in gergo), l’affitto della camera e spese varie. I soldi che restavano servivano poi a far diminuire il mio debito per il viaggio dalla Nigeria all’Italia”.

  “A Torino sono rimasta dal 1999 al 2000. Non molto tempo perché lì avevo incontrato già nel 1999 l’uomo che oggi è mio marito, alquanto dipendente dall’alcol. Prima di lui avevo incontrato un altro uomo che voleva aiutarmi e darmi dei soldi per liberarmi. Al ritorno a casa, ne ho parlato alla madame ma lei non ha voluto perché temeva che fosse una trappola per essere denunciata alle autorità. Allora per cessare la relazione con quell’uomo, mi ha portato via dal Corso Regina a Torino e condotto in un altro posto. Ma in quel nuovo posto la madame locale non mi voleva e alla fine sono stata trasferita a Dalmine, nel bergamasco, e collocata alla stazione di benzina FINA dove ho incontrato un secondo uomo un po’ arruffato nel modo di vestirsi e di conciarsi per cui le mie colleghe di lavoro scappavano via quando lo vedevano. Quell’uomo una volta mi ha portato a casa sua che non era molto distante dalla stazione di benzina. Sono rimasta con lui quella notte. Beveva e l’indomani mattina mi ha riportato alla stazione di benzina. Anche lui mi disse che avrebbe potuto saldare il mio debito. Nel frattempo io dovevo fare la spola tra Torino e Bergamo, partendo alle 18 da Torino per arrivare nella zona bergamasca verso le 22. Dopo la notte in strada, ritornavo a Torno di mattina per prostituirmi durante il giorno. Dormivo solo in treno. La madame mi aveva minacciato che avrebbe fatto uccidere i miei figli se non avessi pagato”.

“Ora io ho terminato di pagare la mia madame, più di 50mila euro! Se poi aggiungo le varie tasse che la madame mi ha imposto, arriviamo a oltre i 70-80mila euro. Sono libera di andarmene, ma dove? Prima devo sistemare la mia vita e mantenere i miei quattro figli. Allora ho detto al mio uomo, quello dipendente dall’alcol che abitava nel territorio bergamasco, che se mi avesse sposato, io avrei potuto ricevere i documenti di soggiorno e di residenza. Lui ha acconsentito e ci siamo sposati nel 2005 in un santuario della bassa pianura, una cerimonia semplice, commovente, quasi fiabesca per il risvolto felice di questa mia situazione estremamente drammatica, dove ne ho passate di tutti i colori”.

“ Mi ricordo una sera sulla strada di Dalmine, è passato uno che sparava in giro. Tutti fuggivano, ho sentito un forte dolore alla gamba, poi ho visto del sangue, ero stata raggiunta da un proiettile. Sono arrivati i carabinieri ed anche la polizia che mi hanno portata in questura a Bergamo. C’era già una lunga fila di uomini in attesa di verifica dei loro documenti e in questura mi è stato chiesto se avessi riconosciuto lo sparatore. Ma non potevo, non avendolo visto bene in faccia”.

“Quando ero sulla strada, è ovvio che venissero da me uomini di tutte le età, a partire dai ventenni fino ai settantenni. Erano molti, ma veramente tanti, non si finiva più! In genere arrivavano in macchina. Io andavo sulla strada dalle 22 della sera fino alle 5 del mattino a Dalmine. Capitava però che venisse solamente un cliente in tutta la notte e con un po’ di fortuna, quello lì ti dava i soldi che bastavano per una giornata”.

  “La nostra vita è imprevedibile e ci ferisce dentro. È una ferita che non si rimargina più. Il ricordo torna indietro negli anni e mi sento veramente umiliata nella mia dignità di donna. Dicono che la ferita alla gamba è guarita e invece quelle nell’anima restano per sempre e me le porterò nella tomba. Non avrei mai immaginato che venendo in Italia sarei arrivata a quel punto di degrado. Ho avuto tantissime esperienze fortuite e impreviste sulla strada, per fortuna che i clienti mi hanno sempre trattata bene. Io però ne soffrivo e incontrando solo persone che mi usavano mi chiedevo se avrei mai trovato  qualcuno che si sarebbe occupato di me come persona”.

“Non provo alcuna vergogna per quello che ho fatto perché non l’ho cercato né voluto però mi sento offesa perché non sono stata considerata come persona, come donna. Ho sperimentato cosa vuol dire una totale mancanza di rispetto. Per dirne una, dovevo prostituirmi anche quando avevo il ciclo. Dovevo prendere degli accorgimenti per non far scappare il cliente ma l’attività doveva andare avanti come se niente fosse. Oppure d’inverno, con la nebbia e con la neve, io dovevo mostrarmi seminuda per attirare i clienti perché se tornavo a casa dicendo che non avevo lavorato, erano botte. La madame mi diceva che i clienti non venivano perché ero troppo vestita. Ma non è una cosa buona per una donna mostrarsi seminuda per strada”.

TESTIMONIANZA RACCOLTA DA PINO LOCATI